La mia Piccola Atletica di Giuliano Donato - Malaspina Giuseppe

Marcia - Atletica Leggera
Malaspina Giuseppe
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Tratto dal Libro "Nomi Numeri e Ricordi"  di Edoardo Giorello e Angela Cartesegna

LA MIA PICCOLA ATLETICA

Brevi memorie di un marciatore in erba

di Giuliano Donato



"Tacco punta – tacco punta…op…op…op…op…e poi, riportate in vernaculus maccaronius: 'Blocca quellu belin di zenuggiu, ranca u bustu, mescia quelle brasse, via cosci…op…op…op…op'. Si prosegue poi in lingua madre: 'Distendi il passo, nooo! Non ruotare il piede, fai la rullata regolare altrimenti vai in sospensione e ti ammoniscono'."
Ciò strepitava l’allenatore severo seguendo la mia andatura dall’interno della corda, curvo a controllare la dinamica del passo.
Iniziò qualche mese prima di tutto ciò la mia breve avventura nel mondo dell’atletica leggera quando, nell’enfasi delle Olimpiadi di Tokyo 1964 e del successo di un grande uomo ed atleta italiano, decisi di dedicarmi alla marcia, pur consapevole delle mie limitate attitudini alla disciplina data la ridotta corporatura e la relativa brevità delle “bielle”.
Fui indirizzato non ricordo da chi, forse dal mio insegnante di educazione fisica del corso magistrale prof. Gulì, verso una allora prestigiosa società sportiva che aveva la sua sede nella palestra del Liceo Doria, proprio sotto le famose caravelle: si trattava dell’Associazione Amatori Atletica.
Intimorito ed emozionato mi presentai, in una gelida serata d’inverno, presso questa palestra e fui accolto da un uomo il cui volto ricordava un famoso leader politico del decennio precedente, curvo, di bassa statura, che mi venne incontro con l’andatura claudicante, ma con un incomparabile sorriso. Era Tullio Pavolini, il fondatore e dirigente della Società.
Ebbi subito l’impressione di aver trovato un calore quasi familiare, costui infatti mi afferrò il braccio destro con una stretta indimenticabile e mi invitò a seguirlo in uno sgabuzzino vagamente attrezzato ad ufficio. Mi fece alcune domande sul motivo delle mie intenzioni e, come risposta alle mie impacciate spiegazioni, mi dette una vigorosa pacca sulle spalle tuonando: "Bravo, qui c’è la tua tessera, ora vai a farti dare una tuta ed un paio di scarpe e mettiti al lavoro".
Fui così affidato alle cure del prof. Boschetti per gli esercizi invernali di preatletica in palestra ed iniziai così il mio percorso di allievo. Gli istruttori spesso si alternavano, oltre al Boschetti ricordo Fregoli, presente spesso a coordinare gli esercizi di riscaldamento e di ginnastica libera o agli attrezzi.
Così, tre sere alla settimana, mi recavo in autobus da via Dino Col, dove allora dimoravo, a piazza della Vittoria per poi affrontare il ritorno a piedi per dopo avere fatto esercizi per circa due ore. Avevo stimato il tratto di strada in circa 5 km che percorrevo con entusiastica lena e sempre in un tempo più breve, esibendo fiero la borsa a tracolla con il simbolo triangolare della Società.
 
Ricordo nettamente un fondamentale insegnamento impartitomi da Boschetti sulla tecnica della respirazione sotto sforzo, prezioso tutt’oggi come tanti altri appresi allora.
Non vedevo l’ora che arrivasse primavera e che si concretizzasse quanto si favoleggiava da tempo sul debutto in una pista di atletica vera, quella gloriosa dello stadio allora detto della Nafta e in un radioso pomeriggio di fine febbraio ciò avvenne!
Ricordo che allora i mezzi di trasporto urbano erano divisi in due categorie: numeri e lettere con presunte differenti prestazioni di comfort e di velocità, ma con indubbia differenza di prezzo. Per recarmi da via Dino Col a S. Martino ero costretto a servirmi del mezzo più costoso per rapidità (relativa) e lunghezza della tratta: l’autobus della linea “S” la cui tariffa ammontava a £ 140 che, sommate al ritorno, risultava £ 280 che per quei tempi era una cifretta ragguardevole. E d’altronde non potevo permettermi, dopo gli allenamenti di due o tre ore, di tornare a casa pedibus calcantibus.
E vada per l’autobus allora, particolare insignificante al confronto di quanto mi sarebbe capitato salendo la rampa di quell’arena che, per me, a prima vista apparve già magica così.
In angolo d’erba verde, proprio vicino all’uscita della rampa sul terreno del campo, si stagliava una dinoccolata figura alta, asciutta e vestita con un impeccabile tuta azzurra dove campeggiava la scritta Italia ed uno scudetto tricolore. Abdon Pamich, l’olimpionico, il mito che, dopo aver concluso un esercizio yoga a gambe in su, confabulava allegramente con una persona che a me apparve molto anziana e dalla quale mi era stato indicato di presentarmi. L’avevo seguito nello sfocato bianco e nero della diretta notturna dal Giappone e poi nei servizi del telegiornale, strappare quel filo davanti all’anglosassone dal berretto bianco e quell’immagine mi era rimasta talmente impressa che, ancora oggi, mimerei perfettamente quel gesto di liberazione.
Poi seppi dell’inconveniente durante quella gara e l’impresa, ai miei occhi, assunse oltre al mito un connotato di rara e soffertene umanità.
Ora conoscendo meglio la sua storia, so che lui, un italiano serio, paziente e determinato, al di là del trionfo sportivo, era riuscito, contro l’idiozia di molti, ad affermare un valore vero, quello dell’appartenenza alla sua Patria. Cito una sua emblematica frase che ne sintetizza il carattere, sulla disciplina sportiva a lui cara: “La marcia educa al silenzio, alla solitudine, all’autonomia, alla pazienza ed alla perseveranza”.
Bene, con le gambe tremanti dall’emozione, attesi che i due finissero di chiacchierare, osservai ammirato il campione distendere le prime falcate sulla pista e, senza perdere d’occhio il fenomeno, mi presentai a Giuseppe Malaspina, ferroviere, quotatissimo allenatore di marcia.
 
Chissà perché, anche con lui come con Pavolini, provai la sensazione di avere a che fare con uno zio un poco burbero ma con il cuore teso a proteggere e formare una parte del carattere di un quindicenne ingenuo ed alquanto sprovveduto.
Subito mi fece un appunto sulle scarpe da ginnastica che non reputava affatto adatte alla marcia e tantomeno un paio di scarpette chiodate che mi ero procurato con mille sacrifici. Mi invitò a fare una passeggiata defaticante insieme a lui nella corsia esterna della pista, quella tradizionalmente riservata ai marciatori affinché non creassero intralcio ai mezzofondisti e ai velocisti in ripetuta. Con uno stile impeccabile accennò ad alcuni passi di marcia cercando di dimostrarmi almeno i fondamentali; mi stupii di come riuscisse a bloccare la gamba anteriore, cosa alla quale teneva particolarmente, e della sua vigorosa spinta della rullata.
L’indomani si presentò con un paio di scarpette usate che credo fossero state risuolate con un lembo di copertone automobilistico e che presentavano un’inconsueta rigidità nella zona del tallone. Mi pare fossero appartenute a Nicolino Mennuti marciatore più anziano, già junior. Ma, una volta calzate, si dimostrò incredibile la loro comodità e la perfetta efficacia in ogni condizione di passo, le conservai a lungo anche quando fui costretto ad abbandonare l’attività.
A poco a poco presi familiarità con le persone che gravitavano in quel mondo ed arrivarono altri marciatori della mia categoria con i quali l’amicizia trionfava quasi sempre sull’immancabile rivalità. Ne ricordo alcuni: Carioti, Bacciagalupi, Mennuti, Mazzanti, Calvillo ed altri di cui adesso mi sfuggono i cognomi ed ancora i due comprimari juniores del Campione Olimpionico: Dughera e Domenghini, una sorta di “articolo il” dove Dughera di statura medio-bassa era dotato di una spinta incredibile e Domenghini, altissimo, al quale bastava distendere le leve quasi con noncuranza per allungare vigorosamente; in ogni caso per noi allievi filavano come missili.
In seguito durante alcuni allenamenti sulla pista di corso Montegrappa conobbi Danilo Bonamigo il quale vantava, se non vado errato, il record ligure sui 4 km. Lo ritrovai anni dopo, presidente del Dopolavoro Ferroviario di Genova e poi membro eletto del Consiglio Comunale di Genova.
E poi altri atleti più anziani che in seguito ho ritrovato nelle cronache sportive locali e nazionali per i loro prestigiosi ruoli all’interno dell’ambiente sportivo o giornalistico: Autore, Carnicelli, Giorello, Ottonello, Savarese (corsa), Dobrich (se non erro disco e giavellotto), Crosa e Zamparelli (salto in alto), Aprà (salto con l’asta).
Saltuariamente prima di scendere in pista, assistevo agli allenamenti del Genoa, sostando ammirato dietro la porta difesa da un ben piantato Da Pozzo che si alternava con la sua riserva, per contro filiforme, che mi pare si chiamasse Grosso.
Avevo la sensazione però che quella mai sopita passione per il ruolo di portiere di football suonasse come un sottile tradimento alla disciplina intrapresa, pertanto, subito dopo avere assistito alla partitella, intensificavo gli allenamenti impegnandomi più di prima. Arrivarono poi le gare, la prima consisteva nel campionato provinciale allievi sui 4 km e mi riservò l'esperienza sconcertante di correre da solo; ciò che mi meravigliò fu la comprensione e la serietà dei giudici che pazientemente attesero i 28 minuti impiegati a percorrere la distanza. Fui perfino citato all'indomani, nell'edizione della Gazzetta del Lunedì, dal giornalista Luigi Oneto il quale, in una breve nota, descrisse bonariamente di come la marcia fosse a buon titolo considerata la Cenerentola dell'atletica leggera. Ho iniziato volutamente questo sproloquio senza pretese citando le frasi concitate che Malaspina inviava talvolta ai miei passaggi, inframmezzandole talvolta con un "bravo, avanti così" fatto che mi riempiva di sottile soddisfazione. Quell'uomo, compagno d'arme del più giovane Pino Dordoni, ebbe l'enorme sfortuna di incappare nella seconda guerra mondiale dove la sua carriera fu letteralmente stroncata a causa di una scheggia di ordigno bellico che lo colpì proprio nel malleolo che, per un marciatore, è come colpire le mani ad un pianista. Un giorno indugiammo a dialogare prima degli allenamenti ed egli, abbassando l'immancabile calzino nero, mi mostrò l'impressionante cicatrice confidandomi, nonostante il differente età e di ruoli, come vivesse nel cocente rammarico di quanto gli era accaduto, mitigato solo parzialmente dalla soddisfazione di allenare colui che avrebbe, sotto la sua assistenza, vinto un incredibile oro olimpico. Conclusi questa breve ma intensa avventura per un serio inconveniente fisico che mi costrinse a desistere dall'allenarmi e a sottopormi ad una lunga terapia riabilitante. Resta il ricordo di un periodo bellissimo fatto di spensieratezza, di sogni, ma soprattutto caratterizzato da una importantissima formazione del carattere, impressa da persone oneste e leali pur se a tratti burbere o severe. A queste, indimenticabili, rivolgo il mio pensiero ed un caro ringraziamento esteso anche a colui che ospita queste strampalate ma sincere righe sperando che servano a conservare qualche sbiadito brandello di memoria su fatti e persone care, pur soltanto sfiorate nella vita.
 
 

Giuliano Donato - atleta anni '60 - poeta e scrittore per talento nascosto, sincero appassionato di atletica
 
 
 
 
 
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